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Valentino
PESENTI
A.K.A.: "The Monster of Genoa"
Classification:
Homicide - Murderer
Characteristics: Juvenile
(14) - Robberies
Number of victims: 4
Date of murders: 1976 / 1991
Date of birth: 1962
Victims profile: Giovanna Grattarola, 89 / Kuo
Yuen Suo, 50 / Anna
Maria Carrozzino, 67, and her daughter Maria Grazia Villa, 35
Method of murder: Stabbing
with knife - Beating with various objets - Shooting
Location: Genoa, Italy
Status: Sentenced to 30 years in prison on May 21, 1992
1976 - 1991 - Il mostro di Genova
Quattro omicidi (due nel 1976 e due nel 1991), si
sospetta che sia autore di altri omicidi.
VALENTINO PESENTI (detto il
"mostro di Genova"), tra il'76 e il'91 uccide 4 persone. Viene
arrestato dopo aver assassinato madre e figlia nella loro casa di Bavari,
vicino Genova, a colpi di mattarello e aver infierito sui cadaveri con
un rasoio.
Valentino Pesenti
Occhirossi.it
Sara Di Marzio giugno 2007
Valentino Pesenti nasce a Genova nel
1962.
La sua infanzia fu tormentata da un pessimo rapporto
con i genitori, soprattutto con il padre.
Ancora minorenne, il 25 marzo 1976, uccide
Giovanna Grattarola di 89 anni la donna di compagnia della contessa
Elisabetta Thellung.
Il giorno dopo la fotografia che mostra i muri della
casa della contessa, nel quartiere di Carignano, pieni di macchie di
sangue finisce su tutti i giornali nazionali. La donna è stata uccisa
con coltelli, bastoni e con arnesi di fortuna trovati in cucina.
I sospettati, perché secondo gli inquirenti un
macello simile non può essere stato compiuto da un solo uomo, sono
alcuni barboni dei dintorni, che sono soliti irrompere nelle case del
quartiere, che avrebbero assalito la donna per trafugare una catenina
d'oro e una sveglia.
Pochi mesi dopo, il 31 agosto del 1976,
la signora Vera Doro chiama i carabinieri molto
preoccupata perché il marito, un cinese di 50 anni di nome Kuo
Yuen Suo che vive in Liguria dagli anni '50, non è ancora
rientrato a casa.
Sono le 12.50, e solitamente il marito alle 12.35,
non un minuto di più, non uno di meno, entra in casa per pranzo, dopo
aver chiuso il negozio di pelletteria che gestisce in via Lomellini.
I carabinieri allora effettuano un sopralluogo al
negozio di Kuo e, non trovandolo, perquisiscono il retrobottega.
Kuo è proprio lì, coperto con un telo di plastica e
con due pallottole calibro 7,65 nella schiena.
Si pensa subito ad una rapina (anche
se sia la cassa che il portafoglio dell'uomo sono intatti),
oppure ad un eventuale regolamento di conti per il racket delle
estorsioni, ma neanche questa, purtroppo, è la pista giusta,
così anche questo caso va a prendere polvere su uno scaffale
nell'archivio della polizia, apparentemente senza colpevole.
Nella notte tra il 17 e il 18 gennaio 1991,
una signora chiama il 113 e racconta di avere sentito urla e spari
provenire dall'appartamento al piano di sotto, ma di essere troppo
spaventata per intervenire.
Minuti interminabili scorrono tra le grida e la voce
incomprensibile di un uomo; poi, un silenzio spaventoso e i passi di un
uomo che attraversano il giardino.
La signora si chiama Rosa e lo ha visto: indossava
una grossa sciarpa a righe, rivela sotto shock alla polizia mentre
quest'ultima ispeziona il luogo del massacro.
C'è sangue ovunque e le vittime sono due donne,
Maria Grazia Villa di 35 anni e la madre Anna
Maria Carrozzino di 67.
La signora Anna Marina è stata sorpresa a letto,
legata con un cavo elettrico e colpita con un matterello e con numerose
coltellate; in salotto invece c'è la figlia, uccisa a coltellate e a
colpi di trinciapollo.
Appena due ore dopo l'efferato omicidio, due
carabinieri trovarono sulla strada un uomo che grida a bordo di una Fiat
500, le cui due ruote destre sono finite in un cataletto impedendogli di
muoversi. Facendo il gradasso, con aria strafottente, l'uomo si rivolge
ai carabinieri dicendo: "Aiutatemi! Non fa parte del vostro lavoro
aiutare i cittadini in difficoltà?".
Sicuri di avere a che fare con un ubriaco, i
carabinieri decidono di perquisirlo, ma c'è poco da perquisire perché
l'uomo indossa la sciarpa descritta esattamente dalla signora Rosa, i
suoi pantaloni sono visibilmente imbrattati di sangue e dietro il sedile
ci sono i gioielli rubati in casa Carrozzino.
Valentino Pesenti, così si chiama,
ha una fedina penale lunghissima: furto, scippo, ricettazione e omicidio.
Inizialmente prova a dare una versione dei fatti, per
cui aveva alloggiato sei mesi a casa della signora Carrozzino, ma quando
la donna si era accorta della relazione che Valentino aveva con la
figlia, lo aveva cacciato di casa.
Così lui, in una notte di follia, avrebbe rubato una
Fiat 500 e sarebbe tornato alla casa con il volto coperto per vendicarsi
in qualche modo. La signora l'avrebbe però riconosciuto e in lui sarebbe
scattato un raptus (le sue parole sono state: "Ho visto tutto rosso").
Ma in realtà non è così: Valentino e le due
donne non si conoscevano e l'uomo, sotto pressione, confessa tutti gli
omicidi.
Pesenti racconta tutto in maniera particolareggiata,
dicendo di aver provato piacere nell'uccidere.
Al termine del successivo processo, la corte lo
riterrà capace di intendere e di volere e il 21 maggio 1992, Valentino
Pesenti viene definitivamente condannato a 30 anni di carcare.
Ancora oggi Valentino Pesenti è nel carcere di Porto
Azzurro, dove collabora alla testata giornalistica "La Grande Promessa",
gestita dai detenuti. Recentemente, in un suo articolo, ha
richiesto a gran voce l'introduzione di riforme che promuovano misure di
rieducazione alternative alla cella.
Pesenti, gli piaceva
uccidere e lo fece per quattro volte
di Paolo Bertuccio - IlGiornale.it
2009-04-27
Madre e figlia a Bavari nel ’91, ma la scia di sangue
parte nel ’76 da Carignano e via Lomellini
C’è un’automobile, a bordo strada. È una vecchia 500 bianca, non può
muoversi perché le due ruote destre sono finite nel canaletto. I due
carabinieri si fermano per dare una mano al malcapitato conducente, ma
prima controllano. Perché non è una nottata qualunque, a Bavari, quella
tra venerdì 17 e sabato 18 gennaio 1991. Anche l’impressione per le
freschissime notizie del secondo attacco notturno degli Stati Uniti
all’Iraq passa in secondo piano, di fronte all’agghiacciante tragedia
che si è consumata - scriveranno i giornali di domenica - in una
palazzina di via Villa.
Erano le due. Una signora ha chiamato il 113 con voce
terrorizzata. Ha raccontato che nell’appartamento al piano di sotto si
sentivano dei colpi, delle urla fortissime. Che temeva per la vita delle
due donne che abitano lì, ma che era troppo spaventata per intervenire.
Ha aspettato, per interminabili minuti, mentre sotto di lei si scatenava
l’inferno. Sempre colpi e urla. Voci femminili, quelle di Maria Grazia
Villa, maestra disoccupata trentacinquenne, e della madre Anna Maria
Carrozzino, 67 anni; ma anche le parole incomprensibili di un uomo,
l’aggressore. Poi un silenzio raccapricciante, e i passi dell’uomo in
fuga attraverso il giardino. La signora, che si chiama Rosa, l’ha visto:
ha una grossa sciarpa a righe. Lo ha spiegato, sotto choc, ai poliziotti,
mentre questi stavano ispezionando il luogo del delitto. Anzi, della
mattanza. Perché il sangue è ovunque. La signora Carrozzino è stata
sorpresa a letto, immobilizzata con del cavo elettrico ai polsi e
colpita con un mattarello e poi con numerose coltellate. Credendo di
averla uccisa, l’assassino è passato al salotto, dove si trovava Maria
Grazia. Una tempesta di coltellate e botte, per lei e anche per la
madre, che è riuscita, con le ultime forze rimaste, lasciando una
evidente scia di sangue lungo il precorso, a raggiungere la stanza per
un disperatissimo tentativo di difesa. Per finire le due vittime, il
killer ha usato un trinciapolli, poi è fuggito portando via una manciata
di gioielli e cianfrusaglie di poco conto.
Ed ecco che, neanche un paio d’ore dopo questo
efferato duplice omicidio, due carabinieri trovano sulla strada un
giovanotto sulla trentina che è uscito di strada con la macchina. Fa
anche il gradasso, «Aiutatemi! Non fa parte del vostro lavoro aiutare i
cittadini?», probabilmente è ubriaco. Decidono di perquisirlo, ma c’è
poco da perquisire quando il sospettato indossa una sciarpa
corrispondente alla descrizione della testimone, i pantaloni con grosse
macchie di sangue e sul sedile del passeggero i gioielli spariti da casa
Carrozzino. L’uomo non tenta nemmeno di negare, e confessa tutto
immediatamente.
Valentino Pesenti, ventinove anni, ha una fedina
penale lunga come la strada tutta tornanti che da Bavari scende in città
e porta alla Questura. C’è di tutto: furto, rapina, scippo, ricettazione,
perfino un tentato omicidio. Secondo la sua confessione, questo status
di pregiudicato è, indirettamente, la causa della sua furia omicida.
Aveva alloggiato in quella famosa palazzina, in un appartamento di
proprietà delle due vittime, per sei mesi nel 1989, ma appena l’anziana
padrona aveva scoperto il suo passato e la sua relazione segreta con la
figlia, lo aveva mandato via. Aveva deciso di vendicarsi, prima o poi,
così quella sera aveva rubato una 500 bianca e si era recato alla
villetta, nell’intento di fare una rapina. Era entrato col volto coperto,
ma la signora Anna Maria lo aveva riconosciuto, ed era iniziato in lui
un raptus assassino. Per dirla con le parole di Pesenti stesso, «ho
visto tutto rosso». Da quel punto in avanti, l’assassino dichiara di non
ricordare nulla. Una confessione abbastanza lucida, ma non sempre
credibile: ad esempio, emerge quasi subito che tra Pesenti e la Villa
non c’è mai stata nessuna relazione. Insomma, i magistrati sanno che le
parole di questo individuo vanno prese con le pinze. Per questo non
sanno come comportarsi, quando Valentino Pesenti confessa candidamente
di aver commesso altri due omicidi. Due casi irrisolti che sonnecchiano
in Procura a Genova, in un fascicolo archiviato da ormai quindici anni.
Il 25 marzo 1976, la fotografia che mostra i muri
della casa della contessa Elisabetta Thellung, nel quartiere di
Carignano, pieni di macchie di sangue finisce su tutti i giornali. La
dama di compagnia, Giovanna Grattarola di 89 anni, è stata barbaramente
uccisa. Gli assassini - perché secondo gli inquirenti un macello simile
non può essere stato compiuto da un solo uomo - hanno infierito sulla
povera donna con coltelli, bastoni, perfino una mezzaluna trovata in
cucina. Tutto questo per una catenina d’oro e una sveglia, nemmeno tanto
preziosa. I sospettati sono alcuni clochards, visto che è abitudine di
casa aprire la porta ai bisognosi e dar loro un pasto caldo; poi ci si
sposta su di un imbianchino di cinquant’anni, visto uscire dal portone
all’ora dell’omicidio. Verrà scagionato dopo poco tempo, e il caso
finirà in archivio.
Il 31 agosto 1976 la signora Vera Doro è preoccupata.
Sono le 12.50, e solitamente il marito alle 12.35, non un minuto di più,
non uno di meno, entra in casa per pranzo, dopo aver chiuso il negozio
di pelletteria che gestisce in via Lomellini. Il suo nome è Kuo Yuen Suo,
viene dalla Cina e vive da quasi vent’anni a Genova. È simpatico, ben
voluto da tutti i commercianti della zona e, soprattutto, puntuale.
Questo ritardo preoccupa Vera, che esce per andargli incontro. Arriva
fino al negozio e trova la saracinesca abbassata, ma non chiusa. Guarda
dentro e non trova nessuno. Allora torna verso casa col cuore in gola,
ma un balordo la ferma e le scippa la collana. Sconvolta, Vera chiama la
polizia, e appena arrivano gli agenti racconta tra le lacrime di non
essere preoccupata per la collana, ma per il marito. A questo punto
viene effettuato un sopralluogo al negozio, e Kuo Yuen Suo è nel
retrobottega, coperto con un telo di plastica e con due pallottole
calibro 7,65 nella schiena. Si pensa ad una rapina, ma mentre i soldi
dell’incasso (una cifra irrisoria) mancano, è ancora presente nel
portafoglio della vittima la somma di trecentomila lire. Lo scippatore
della donna, tale Patrizio Saluzzi, dapprima accusato dell’omicidio,
viene scagionato. Le indagini cercano di scandagliare una eventuale
doppia vita del cinese, ma non si trova niente. Nessun riscontro nemmeno
per quanto riguarda un eventuale racket delle estorsioni, così anche
questo caso va a prender polvere su uno scaffale. Finché, dopo tre
lustri, viene riaperto insieme a quello dell’omicidio Grattarola, per
via dell’inaspettata confessione di uno che, all’epoca dei fatti, aveva
quattordici anni.
Pesenti racconta tutto con dovizia di particolari,
aggiungendo di aver provato un grande piacere nell’uccidere. Sembra
altamente improbabile che le sue parole siano frutto dei ricordi di ciò
che aveva letto sui giornali all’epoca. Inoltre, l’omicidio dell’anziana
dama di compagnia è in qualche modo analogo a quello di Bavari per
efferatezza e disorganizzazione, mentre in tutti e tre i casi viene
rubata solo una parte trascurabile di tutto ciò che si poteva sottrarre
alla vittima.
Valentino Pesenti viene processato per il duplice
omicidio di Bavari. La corte non crede alla storia del «tutto rosso» e
lo ritiene capace di intendere e di volere, e il 21 maggio 1992 viene
letta la sentenza di condanna a trent’anni di reclusione.
Oggi si può leggere il nome di Pesenti tra quelli dei
redattori de «La Grande Promessa», il bimestrale dei detenuti del
carcere di Porto Azzurro, dalle cui colonne chiede riforme che
promuovano misure di rieducazione alternative alla cella.