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Giorgio William VIZZARDELLI

 
 
 
 
 

 

 

 

   


Soprannome: "
Il killer di Sarzana"
 
Classificazione: Omicida
Caratteristiche: Minorenne - Per vendetta o per rivalsa
Numero delle vittime: 5
Data di omicidi: 1937 - 1939
Data di arresto: 1940
Data di nascita: 1922
Profilo delle vittime: Don Umberto Bernardelli, il rettore del collegio Casa delle Missioni / Frate Andrea Bruno, il guardiano del collegio / Livio Delfini, un barbiere di 20 anni / Bruno Veneziani, tassista di 35 anni / Giuseppe Bernardini, di 75 anni, custode dell'Ufficio del Registro
Modus operandi: Colpi di scure - Arma da fuoco
Localizzazione: Sarzana, Italia
Status: Viene condannato al carcere a vita 1940.  Graziato dal presidente delle Repubblica nel 7 luglio 1968.  Suicida 12 agosto del 1973
 
 
 
 
 
 

Cinque omicidi e tre tentati omicidi.

Uccideva per vendetta o per rivalsa.

Arrestato nel 1940 e condannato all' ergastolo (era ancora minorenne), graziato dal presidente delle Repubblica nel 1968. Suicida

Fonte: Tullio Bandini, Uberto Gatti, Maria Ida Marugo, Alfredo Verde / Criminologia

 
 

Giorgio William Vizzardelli

Occhirossi.it

Sara Di Marzio gennaio 2008

Giorgio William Vizzardelli, più noto come il killer di Sarzana, nasce nel 1922 a Francavilla al Mare, figlio di Guido Vizzardelli, direttore del Registro di Sarzana.

Da bambino sopravvive ad un forte terremoto, ma ne rimane scioccato e accuserà per tutta la vita un mal di testa cronico. Le sue passioni sono la distillazione dei liquori e le armi da fuoco, il suo mito è Al Capone.

Colpisce la sua prima volta giovanissimo, a soli 14 anni, quando uccide Don Umberto Bernardelli, il rettore del collegio Casa delle Missioni, dove Giorgio frequenta la scuola di avviamento.

Don Umberto è stato massacrato nella biblioteca, a colpi di scure. Nella fuga, Vizzardelli uccide con 2 colpi di rivoltella anche Frate Andrea Bruno, il guardiano del collegio che lo aveva riconosciuto, diventando così un testimone scomodo.

Partono le indagini, ma la polizia di Sarzana è disorientata soprattutto per la morte del custode Don Andrea.

Padre Bernardelli invece era un uomo molto chiacchierato in paese, pare che si concedesse spesso ai piaceri del sesso e forse era caduto vittima dell'ennesimo marito tradito, che aveva dovuto freddare anche Don Andrea, testimone scomodo.

Per l'uccisione dei 2 sacerdoti viene inizialmente arrestato un giovane, poi liberato per via di un alibi di ferro. Con lui si scuserà persino Benito Mussolini, risarcendolo con 25 mila lire per l'errore.

Mentre le indagini per il duplice omicidio rimangono senza colpevole, il 20 agosto 1938 a Ghiaia Falcinello, alle porte di Sarzana, vengono ritrovati in un torrente due cadaveri, un barbiere di 20 anni, Livio Delfini e il tassista Bruno Veneziani, di 35 anni, uccisi con armi da fuoco diverse; una calibro 9 e una calibro 7,65.

Mussolini convoca il capo della polizia che si occupa di questo caso e lo incita a compiere indagini serrate, soprattutto tra i delinquenti politici, ma il commissario Cozzi non crede a queste ipotesi e prosegue con le sue indagini.

Il 29 dicembre 1938, viene ritrovato ucciso Giuseppe Bernardini, di 75 anni, custode dell'Ufficio del Registro. L'uomo è stato ucciso a colpi di accetta e dalla cassaforte dell'ufficio, aperta senza segni di effrazioni, manca la somma di 12.949 lire e 35 centesimi. Il commissario indaga e giunge alla conclusione che il colpevole doveva essere per forza in possesso delle chiavi dell'edificio. Chi altro poteva avere le chiavi dell'ufficio? Il direttore!

Guido Vizzardelli viene subito interrogato, si scopre che ha un figlio 16enne di nome Giorgio, con l'hobby della distillazione, che frequenta l'istituto dei due Frati uccisi e che la sera del delitto è rientrato molto tardi a casa (il padre aveva denunciato la scomparsa ai carabinieri per poi ritirarla). Alcuni ragazzi del collegio dichiarano inoltre che Giorgio tempo prima ha mostrato loro una scure molto simile a quella utilizzata per uccidere Bernardini.

Sulla base di queste informazioni, gli inquirenti decidono di interrogare il giovane Vizzardelli.

Giorgio William, inizialmente nega tutto, poi però confessa i 5 delitti, messo soprattutto alle strette dal ritrovamento nelle sue tasche della chiave della cassaforte, per giunta ricoperta di sangue rappreso.

Nella sua confessione, Vizzardelli spiega con incredibile freddezza di aver ucciso il custode del Registro perché voleva scappare in America e aveva bisogno di soldi. Il barbiere aveva scoperto l'omicidio dei due frati, perciò lo ricattava, il tassista era un testimone involontario come Don Andrea. "Don Andrea non lo avrei ucciso se non mi avesse riconosciuto" dichiara pacatamente Giorgio. Don Umberto Bernardelli lo aveva invece schiaffeggiato per aver bruciato delle carte geografiche e doveva pagare per questo.

Vizzardelli scampa alla pena di morte solo perché non ancora maggiorenne. Il processo si apre il 19 settembre 1940 e il 23 settembre dello stesso anno termina con una condanna all'ergastolo. Giorgio diventa così il più giovane ergastolano d'Italia.

Negli anni '60 è stata chiesta per lui la grazia, concessa poi dal Presidente Saragat,  che afferma: "Vizzardelli è socialmente recuperabile".

Esce così di prigione il 29 luglio 1968, dopo avere scontato 28 anni tra carcere e manicomio. Purtroppo però Saragat si sbagliava, perché la mattina del 12 agosto del 1973 Giorgio William Vizzardelli viene trovato morto nella sua abitazione: si è tagliato la gola e un braccio con un coltello da cucina e si è lasciato morire dissanguato. Pare che la sera prima abbia assistito ad un programma sui serial killer.

 
 

Uccide due preti e fa altre tre vittime il quindicenne che amava Al Capone

di Paolo Bertuccio - IlGiornale.it

I delitti a Sarzana tra il 1937 e il 1939. Un errore giudiziario risarcito da Mussolini con 25mila lire

I morti di questa storia sono cinque, ma avrebbero potuto essere anche sette. A volte succede che, in racconti di sangue come questo, qualche vittima designata la scampi, evitando così che le proporzioni della carneficina aumentino ulteriormente. Succede, un po' per fortuna, un po' perché chi dispone della vita o della morte di un uomo con un'arma in mano non è una macchina. È un uomo anche lui, e allora può anche sbagliare. Oppure provare pietà, e allora si ferma un istante prima di colpire. Ma questo non è il caso della nostra storia: qui la pietà non esiste.

Il primo morto è un prete, e si chiama don Umberto Bernardelli. È il rettore del Collegio delle Missioni di Sarzana da molti anni. La sera del 4 gennaio 1937, nel suo ufficio, si sta occupando per l'ennesima volta di tutte le piccole, tignose pratiche che è necessario sbrigare ad ogni inizio di anno solare. Ma deve interrompersi, per un motivo assai sgradevole. Un uomo si presenta davanti alla scrivania, e le sue intenzioni appaiono subito chiare. Cappellaccio calcato in testa, sciarpa di lana a coprire tutto il volto, rivoltella nella mano destra, non può trattarsi che di un rapinatore. Il sacerdote estrae immediatamente da un cassetto la bella somma di cinquantamila lire per consegnarla all'individuo, ma a questi il denaro non interessa. Gli interessa solo sparargli tre colpi in pieno petto, e lo fa senza dire una parola.

Tre colpi di pistola fanno baccano, e due collegiali quindicenni che si trovano in un corridoio vicino all'ufficio di don Bernardelli accorrono immediatamente. L'assassino li incrocia e non esita a sparare contro di loro. Fortunatamente la sua mano non è quella di un killer esperto: Leonardo Bassano viene colpito in maniera non mortale ad un fianco, mentre Alfredo Collini rimane incolume. La fuga dell'uomo mascherato prosegue fino alla portineria, dove è seduto, com'è consuetudine, don Andrea Bruno. Il secondo morto della nostra storia è lui.

«Fermo, disgraziato!», fa in tempo ad urlargli il religioso, prima che due pallottole lo facciano accasciare a terra. L'assassino riesce a dileguarsi, mentre don Bruno riceve i primi soccorsi. Il sacerdote è in agonia, ma a parlare ce la fa ancora. Prima del trasporto in ospedale, durante il quale spirerà, spiega faticosamente di aver riconosciuto il criminale. Il problema è che lo conosce solo di vista e non ne ricorda il nome. Nella concitazione, c'è chi prova a fargli qualche nome di studente sperando che venga fuori quello giusto. Nulla da fare.

Le indagini, fin dall'inizio non sono facili. I moventi, infatti, possono essere di svariata natura, tra cui quella passionale. Nella cittadina girano innumerevoli leggende sulla doppia vita di don Bernardelli, un prete che, a quanto pare, non disdegna la compagnia femminile. Si narra dei costosi abiti borghesi di questo sacerdote apparentemente irreprensibile, di numerose amanti, di altrettanti mariti gelosi. E, visto che vox populi, vox dei, non si può proprio escludere niente. Ma è concentrandosi sulle ultime ore di vita di don Bernardelli che gli inquirenti trovano quella che, forse, è la pista giusta. Quella sera, poco prima del delitto, la vittima era in compagnia di due persone. Una era don Andolfatto, parroco di Castelnuovo Piano; l'altra era uno studente d'ingegneria ventiquattrenne, tal Vincenzo Montepagani. Mentre i due sacerdoti discutevano delle gravi condizioni di salute di Papa Pio XI, il giovane se ne stava silenzioso in disparte. Tipico di questo ragazzo dal carattere estremamente introverso, che voleva guadagnare qualche soldo per poter sposare la sua fidanzata e che il rettore del collegio aveva aiutato, assumendolo come insegnante per le ripetizioni pomeridiane con uno stipendio adeguato. Non che lavorasse particolarmente bene, anzi, addirittura si faceva aiutare da un'altra professoressa a preparare le lezioni. Don Bernardelli lo aveva rimproverato più di una volta.

Montepagani è alto e robusto, esattamente come l'uomo con cappello e sciarpa descritto dai testimoni oculari. Giura e spergiura di non entrarci niente. Di essere tornato a casa e di non esser più uscito, quella sera, ma non riesce a provarlo. Gli screzi con la vittima e il carattere particolarmente difficile, ai limiti della patologia, convincono gli inquirenti ad accusare ufficialmente, tre settimane dopo la tragica serata, Vincenzo Montepagani del duplice omicidio.

Un caso brillantemente risolto? Non è detto. Ricordiamoci che questa è la storia di cinque morti. Il terzo e il quarto vengono trovati a Ghiaia di Falcinello, alle porte di Sarzana, alle prime luci dell'alba del 2 agosto 1938. Nel frattempo sono successe un po' di cose.

Vincenzo Montepagani è stato processato dopo diciotto mesi di detenzione. Sono spuntati alcuni testimoni a suo favore e l'accusa non è riuscita a provare la colpevolezza del giovane, pienamente assolto dopo una lunga camera di consiglio. Benito Mussolini lo ha risarcito consegnandogli personalmente un assegno da venticinquemila lire. Questo è accaduto a luglio, e l'agosto sarzanese si apre con un'altra coppia di cadaveri.

Livio Delfini, vent'anni, faceva il barbiere; Bruno Veneziani, trentacinquenne, il tassista. Quella mattina il taxi è lì, vicino ai due corpi crivellati da due armi diverse, una calibro 9 e una calibro 6.5. Due persone che non c'entrano niente l'una con l'altra, uccisi da altre due persone. Oppure no: un uomo, di solito, ha due mani, e in ognuna può trovar comodamente posto un'arma.

Questi sono i pensieri dell'acuto commissario Paolo Cozzi. Che con un occhio svogliato porta avanti le indagini nell'ambiente della sovversione politica, così come gli ha suggerito il Duce in persona, mentre con l'altro, assai più attento, segue un suo personalissimo filone, che mette in relazione il recente duplice omicidio con quello dei due sacerdoti al Collegio, di quasi due anni prima, e pensa ad un killer isolato. Né da una parte né dall'altra, però, arrivano risultati concreti. Almeno fino agli ultimissimi giorni del decennio.

La mattina del 29 dicembre 1939, il commissario Cozzi accorre all'Ufficio del Registro di Sarzana. L'ha chiamato il direttore, con una voce terrorizzata. E si capisce: è entrato, come tutte le mattine, e ha trovato il custode Giuseppe Bernardini con un'ascia piantata in mezzo alla fronte. Cozzi tocca l'ascia. È appiccicosa. E poi si guarda intorno, e vede la cassaforte aperta. Non scassinata, proprio aperta. Non è possibile: la chiave ce l'ha solo il direttore, che si chiama Guido Vizzardelli. Non è sarzanese, è abruzzese di Francavilla a Mare, dove si è sposato ed ha avuto il figlio Giorgio. A Sarzana è arrivato dopo essere scampato al terremoto che ha sconvolto la sua zona. Lo Stato gli ha trovato una sistemazione in Liguria e gli ha affidato lo stesso incarico che aveva laggiù. Quel che più conta, comunque, è che il signor Vizzardelli sia un uomo di riconosciuta rettitudine. Non può essere stato lui. Intanto, però, consegna il portachiavi al Commissario. È appiccicoso anche quello. «Capisce, signor Vizzardelli, è un atto dovuto, ma devo perquisire casa sua». Cozzi la passa tutta palmo a palmo. Giunge in cantina, e lì ci sono delle bottiglie vuote. Appiccicose.

Il signor Guido spiega candidamente che le bottiglie sono del diciassettenne figlio Giorgio, che distilla liquore per hobby. E che, anche se papà non lo sa, ha anche il passatempo di sparare ai barattoli con la pistola.

Cozzi ringrazia e torna al proprio ufficio. Quel ragazzino un po' introverso non lo convince. Ci lavora un po' e scopre una manciata di cose interessanti. Per esempio, che frequenta l'avviamento commerciale al Collegio delle Missioni. Che un giorno, alla fine del 1936, ha fatto un po' troppo chiasso ed ha danneggiato i ritratti del Re e del Duce. Che il povero don Bernardelli, per questo, lo ha sgridato. Interessante. Meglio scambiare due parole con il ragazzo.

La resistenza di Giorgio William Vizzardelli di Guido, nato a Francavilla nel 1922 e residente a Sarzana, dura poche ore. Confessa tutto. Di avere ucciso don Bernardelli per vendicarsi del rimprovero di pochi giorni prima, e di aver sparato su chiunque tentasse di ostacolare la sua fuga, come il povero don Bruno.

Confessa di avere dato un appuntamento fuori città a Livio Delfini, il barbiere che era venuto a sapere chissacome della sua colpevolezza e lo ricattava, e di averlo ucciso insieme all'ignaro tassista che lo aveva portato fin là. Confessa, infine, di aver rubato le chiavi della cassaforte al padre e di avere barbaramente ammazzato Bernardini allo scopo di rubare i soldi per scappare negli Stati Uniti, la terra dei gangsters e soprattutto del suo idolo, Al Capone.

La minore età lo salva dalla condanna a morte. Nel gennaio 1941 Giorgio Vizzardelli, schiavo di un mito dell'America tutto suo, viene condannato al carcere a vita. Uscirà dopo ventisette anni, in seguito alla grazia concessagli dal Presidente della Repubblica Saragat, ma si toglierà la vita nell'estate 1973, a Carrara, in casa di una sorella.

Paolo Bertuccio

 
 

Vizzardelli, il killer di Sarzana

Il caso è finito nei manuali di criminologia. Trattandosi però di un pluriomicida che seguì un suo filone particolare, quello per dirla in gergo poliziesco del morto chiama morto, se non fosse stato scoperto ancor'oggi nella letteratura del crimine si parlerebbe di un serial killer che, per motivi inspiegabili, agì a Sarzana, provincia di La Spezia. Vale la pena narrarlo come un classico che, anche nelle indagini, rispecchia altre atmosfere. Epoche. Ed ecco quando, come e perchè.

Don Umberto Bernardelli, rettore del Collegio della Missione, quella sera del 4 gennaio 1937 si attardava in biblioteca. "Avanti!", disse udendo un ticchettìo alla porta. Si trovò davanti un viso nascosto da una sciarpa di lana, con un cappellaccio in testa. Pensando a una rapina, prese una busta che conteneva 50 mila lire, ma il visitatore gli sparò tre volte. E guadagnò l'uscita, togliendosi cappellaccio e sciarpa. Frate Andrea Bruno, il guardiano del collegio, gli urlò: "Disgraziato, che cosa hai fatto?". E quello gli sgranò due rivoltellate al petto.

Le indagini? "Un casino", dicevano a Sarzana. Forse frate Andrea aveva riconosciuto lo sparatore? Su padre Bernardelli circolavano invece tante chiacchiere. Per esempio, si diceva che nell'armadio, oltre alle tonache, avesse un guardaroba di abiti impeccabili e qua e là giarrettiere, calze, souvenir di avventure. E allora, come meravigliarsi se a ucciderlo fosse stato un marito che il prete aveva fatto cornuto? Molti i sospettati. Un commesso viaggiatore, di passaggio a Sarzana, venne rimesso subito in libertà quando urlò che era un ufficiale della milizia fascista. Invece uno studente, la cui unica colpa era stata d'essersi trovato da don Bernardelli nel pomeriggio, non venne creduto per 18 mesi e rischiò d'essere fucilato. Ma il suo alibi di ferro alla fine l'ebbe vinta. Per lavarsi le mani della brutta figura che aveva fatto la sua polizia, Benito Mussolini in persona inviò allo studente 25 mila lire e agli inquirenti un messaggio: "Ve la siete presa con un ragazzino e non v'accorgete che c'è lo zampino di delinquenti politici".

Se andate a Sarzana, ancor'oggi da padre in figlio si rimanda l'eco di nugoli di poliziotti tra i migliori d'Italia, ma imbevuti di regime sino al collo, i quali si misero a scandagliare ogni angolo del paese. Ma per fortuna a La Spezia c'era Paolo Cozzi, capo della Mobile, il quale capì subito che nei due omicidi non c'era nulla di politico. In risposta si sentì minacciare di trasferimento perché tentava solo "ingarbugliare le indagini volute dal Duce". Dovette starsene zitto. Anzi, sembrò scomparire di scena finché il 2 agosto 1938 non lo chiamarono a Ghiaia di Falcinello, alle porte di Sarzana.

Due cadaveri giacevano riversi sul greto del torrente: uno era il barbiere Livio Delfini, 20 anni; l'altro il tassista Bruno Veneziani, 35 anni. Erano stati crivellati da colpi di pistola sparati da armi diverse, una calibro 9 e l'altra 6,5. Ai giornali venne dato l'ordine di minimizzare per non allarmare di più la gente, però Mussolini convocò a Palazzo Venezia il capo della polizia: "Mi dicono che anche questi due delitti potrebbero essere stati originati dalla stessa mano. Voglio risultati immediati, a costo di fare arrivare segugi specializzati da Palermo". Scattarono le retate. Vennero portati al commissariato almeno trecento bravi sarzanesi, sospetti "delinquenti politici antifascisti". Però il commissario Cozzi continuava a ripetersi: "Qui la politica non c'entra affatto". E un assassino con già quattro vittime alle spalle e del quale non si conosceva nulla, cos'altro era se non un serial killer?

Il commissario stava rileggendosi certi appunti, quando squillò il telefono: "E' stato ammazzato il custode dell'Ufficio Registro". Erano le sette di mattina del 19 dicembre 1939, cioè 23 mesi dopo il duplice omicidio al collegio e sedici mesi dopo il duplice delitto al torrente. Giuseppe Bernardini, 75 anni, aveva la testa letteralmente spappolata da fendenti d'accetta. E un colpo era stato così bene assestato che la lama non era più uscita dal cranio: l'assassino l'aveva lasciata così e s'era allontanato.

"Come diavolo avrà fatto a entrare?", si chiese il commissario. Le chiavi, oltre alla vittima, ce le aveva solo il dottor Guido Vizzardelli, direttore dell'Ufficio Registro, noto per rigore morale e rettitudine. Lo andò a trovare e gli chiese di poter vedere il suo portachiavi. Quando se lo trovò in mano, notò qualcosa di appiccicaticcio, come di liquore o vino. Visitando poi l'appartamento, in cantina s'accorse di quattro bottiglie vuote che, al tatto sapevano di appiccicaticcio, come il portachiavi. "Di chi sono queste bottiglie"?, chiese il commissario. E il dottor Vizzardelli, con assoluta tranquillità: "Di mio figlio Giorgio. Ha l'hobby di distillare liquori".

Paolo Cozzi percepì allora d'avere in mano l'asso giusto. E silenziosamente si mise a indagare sul giovane, non ancora diciottenne:nativo di Francavilla a Mare, in Abruzzo, da bambino era sfuggito a un terremoto, ma ne era rimasto così choccato che, da allora, aveva sempre accusato mal di testa ed era diventato timido e introverso. Grandicello s'era messo a coltivare due passatempi: distillare liquori e allenarsi al tiro alla pistola. Il suo idolo: Al Capone. Per un paio di anni aveva anche frequentato l'istituto dove erano stati assassinati don Bernardelli e frate Bruno. Come non prelevarlo almeno per fare quattro chiacchiere?

Vizzardelli junior prima negò con decisione, poi balbettò qualche ammissione, alla fine si arrese, cominciando dall'ultimo delitto: "Ero ossessionato dai rimproveri di mio padre e volevo imbarcarmi come mozzo su una nave diretta in America. Mi occorrevano però soldi. Così rubai la chiave dell'ufficio e mi armai di un'accetta. In cassaforte c'erano soltanto 12 mila lire. Stavo tornando indietro bestemmiando quando incontrai il guardiano. "Ah, è lei signorino?", disse. Ma io lo colpii all'impazzata, gli piantai l'accetta nel cranio, poi me ne andai a dormire". E gli altri morti? "Sì, sono stato sempre io - continuò Giorgio William Vizzardelli - a uccidere don Bernardelli. La vigilia di Natale mi aveva schiaffeggiato perché avevo bruciato alcune carte geografiche e insozzato i ritratti del re e del duce appesi nelle aule del collegio. Da bambino odiavo tutti gli insegnanti, un maestro mi picchiava al punto da farmi sanguinare il naso. Ammazzando don Bernardelli vendicavo anche quei maltrattamenti. Gli ho sparato sorridendo. Frate Bruno l'avrei risparmiato se non mi avesse riconosciuto. Il barbiere Livio Delfini si è condannato da solo. Mi aveva visto fuggire la sera del delitto e s'era messo a ricattarmi. Per un anno e mezzo ho subìto le sue imposizioni, poi mi sono deciso a farla finita. Gli ho dato un appuntamento. E' arrivato a bordo di un taxi. L'ho fatto scendere e ho tirato fuori due pistole. Mentre scappava gli ho sparato alla schiena, poi ho freddato anche il tassista, Il giorno del ritrovamento dei cadaveri sono andato a vederli con i compagni di scuola. Ero sicuro d'aver commesso altri due delitti perfetti, invece...".

Su Sarzana e dintorni svaniva così l'incubo del serial killer e, di riflesso, delle retate a sfondo politico. Aveva combinato tutto quel macello uno che in fondo aveva fama di buon ragazzo, seppure un po' svitato, con scarse voglia di lavorare e tante idee strane per la testa, figlio di gente onesta e perbene.

Vizzardelli junior si salvò dalla pena di morte solo perchè gli mancavano dieci mesi al compimento dei 18 anni. Ma quando la mattina del 19 aprile 1940 comparve davanti al tribunale dei minorenni di Genova, i giudici lo condannarono all'ergastolo, nè gli vollero concedere attenuanti, la giovane età, l'infermità mentale. All'avvocato di fiducia il condannato disse: "Grazie per ciò che ha fatto, ma la battaglia era persa in partenza. In Italia sono cose che non vengono capite. Negli Stati Uniti sarei diventato un eroe come Al Capone". Diventò invece il più giovane ergastolano d'Italia.

Il padre imbastì una battaglia legale, facendo domande di grazia a Einaudi, Gronchi e Segni. Definito persona socialmente recuperabile fu Saragat a concederla, dopo che Vizzardelli aveva già scontato 28 anni di carcere, era stato in due penitenziari e in un manicomio criminale.

Uscì in libertà il 7 luglio 1968, quando papà Guido era morto da tre anni. Si rifugiò a Carrara, da una sorella, ma non frequentava nessuno, usciva solo per firmare il registro dai carabinieri. Restò in libertà vigilata sino al 20 luglio del 1973. Ma non arrivò a Ferragosto. La mattina del 12 si diffuse la notizia che Giorgio William Vizzardelli, il pluriomicida di Sarzana, s'era chiuso in bagno e s'era conficcato in gola un coltellaccio da cucina, morendo sul colpo.

Il maresciallo Ciro Intermite scrisse sul suo verbale: "Prima di uccidersi ebbe un'attenzione per la sorella che adorava. Con lucida pignoleria prese le sue scarpe appoggiate in un angolo del bagno e le appese con una cordicella alla chiave della porta, per evitare che si sporcassero di sangue". Ma senza l'intuito di quel commissario di polizia forse che il rebus sul serial killer di Sarzana non sopravviverebbe ancor'oggi? Le cronache insegnano che a volte gli echi del male non solo non si spengono nel tempo, ma si ingigantiscono, arricchendosi di ipotesi e voci, sino a diventare a volte veri e propri fantagialli.

 

 

 
 
 
 
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